La finta savia e il XVIII Dicembre

Nelle storie ci si imbatte per sbaglio, o forse il modo più bello di apprendere, qualunque cosa si apprenda, è relazionale.

Metro, calda mattina di Luglio. Una famiglia latina chiede a quale stazione scendere per visitare il centro città. In particolare vorrebbero visitare una delle piazze centrali, dove si affaccia il Palazzo Reale e un’antica residenza dalle tre anime, come una matrioska, all’interno lo strato più antico.

Una ragazza indica la fermata della stazione principale dei treni.

Qualche minuto dopo sale un ragazzo, giovane, ben vestito. Ha in mano una bustina di carta trasparente, dentro dei fogli, quello che potremmo pensare essere un curriculum. Va nella medesima piazza, dove c’è anche un ufficio per i giovani, che avrebbe l’ambizione di orientarli verso opportunità e invece, nella migliore delle ipotesi, potrà fornire un po’ di consolazione.

Chiede alla ragazza qual è la fermata più vicina per la suddetta piazza. La ragazza tentenna, dice di non essere del posto e cita due stazioni. La conversazione si estende ad altri passeggeri e si concorda che la piazza è probabilmente al centro tra le due stazioni principali.

A quel punto la metro giunge alla fermata XVIII dicembre. Il signore latino chiede che cosa è successo in quella data. Una delle ragazze risponde in spagnolo, il signore ascolta. La moglie gli fa notare che abbiamo cambiato lingua, nel mentre.

Nessuno lo sa, non stiamo facendo una bella figura come giovani di un paese industrializzato. Sembra un po’ la solita scenetta da candid camera, in cui la giovani generazioni non conoscono i più banali avvenimenti storici del paese. Il ragazzo dice di essere rumeno e un po’ si auto-assolve. Ma una delle ragazze non ci sta e allora inizia un articolato processo di deduzione. E di racconto. Suppone che la data sia riferita al periodo pre-unitario e quindi probabilmente legato alla storia di quel periodo e di quel regno, che, diciamolo, non era ancora l’Italia. E racconta alla famiglia, ormai rivelatasi peruviana, di Cusco per l’esattezza, dell’Italia pre-unitaria, dell’annessione e della nascita della Repubblica. E auto-assolvendosi pure lei, che in fondo la storia del regno di Sardegna non è mica quella di casa sua.

Nell’era non digitale la cosa sarebbe pure finita qua. Due nozioni storiche la famiglia peruviana le aveva avute, la ragazza aveva salvato la faccia della gioventù italiana, non più ignorante e tutti vissero felici e contenti. Ma ai tempi della 4G è tutto diverso. Il ragazzo rumeno, con la complicità di Gooogle, smentisce.

Il XVIII dicembre, a Torino, si è consumata una strage fascista, una rappresaglia (ma come si dice strage in spagnolo?, qua la finta savia si deve proprio arrendere).

Il prequel

E’ la sera di una nebbiosa domenica di Dicembre, il 17 appunto, Francesco Prato si sta recando a trovare la sua fidanzata.

Faceva il bigliettaio del tram, viveva in una pensione in Corso Spezia, nel quartiere operaio di Barriera Nizza ed era un comunista. Lo descrivono come di “temperamento audace, battagliero, insofferente d’ogni sopruso e d’ogni prepotenza, incuteva timore agli stessi fascisti. Ovunque si trattava di difendere dei compagni o delle istituzioni proletarie dalle violenze delle camicie nere, il Prato si trovava in prima linea”. Il fascismo si stava consolidando in Italia, e a Torino si era già reso protagonista di aggressioni ed intimidazioni. Il clima era teso. Per questo Francesco Prato aveva in tasca una rivoltella quando cadde nell’imboscata di tre fascisti che gli spararono ferendolo a una gamba. Prato sparò a sua volta, uccidendo due dei suoi aggressori e riuscendo a fuggire. Si rifugia prima in casa di alcuni compagni e poi viene fatto espatriare in Unione Sovietica dove morirà, in un gulag.

Alcune versioni sostengono che i fascisti fossero stati assoldati dal padre della fidanzata di Prato, contrario alla relazione. Non ci direbbe nulla di nuovo sul machismo fascista.

Nel mentre al Teatro Alfieri i fascisti festeggiano la costituzione di una nuova squadra, con personalità politiche influenti, attrici e numerose squadre fasciste provenienti da Parma.

La strage

Il XVIII dicembre Torino si sveglia invasa da << gruppi di camice neri provenienti da altre città: essi erano armati di pistola, di manganello e avevano a tracolla una coperta arrotolata […] altri gruppi di fascisti forestieri appollaiati persino sui predellini e parafanghi di alcune automobili saettanti, brandivano pugnali, pistole, e gridavano per terrorizzare i passanti. Ci parve di capire la vera ragione dell’affluenza a Torino di squadristi da altre località  […] i caporioni fascisti, per giustificare il massacro che si apprestavano a scatenare contro gli antifascisti torinesi, prendevano a pretesto la batosta che il nostro compagno Prato aveva inferto ai loro sgherri »

Alle 11.30 una cinquantina di fascisti fa irruzione nella Camera del Lavoro, dove bastona il deputato socialista Vincenzo Pagella, il ferroviere Arturo Cozza e il segretario della Federazione dei metalmeccanici, l’anarchico Pietro Ferrero. Poi li lascia andare.

Verso l’una, dopo aver cercato Carlo Berruti e averne devastato la casa, entrano nell’ufficio delle Ferrovie di corso Re Umberto, prelevano Carlo Berruti, segretario del Sindacato ferrovieri e consigliere comunale comunista, e il socialista Carlo Fanti, li caricano in una macchina scoperta e li portano in aperta campagna, nella zona di Nichelino e gli sparano alla schiena.

Nel primo pomeriggio i fascisti fanno irruzione in un’osteria in via Nizza 300. Perquisiscono i presenti e trovano la tessera del Partito Socialista ad Ernesto Ventura. Gli sparano e lo feriscono. Leone Mazzola, gestore del locale, prova a protestare. Viene trascinato nel retrobottega dove i fascisti credono di trovare indizi della sua appartenenza comunista. Lo uccidono. L’indagine rivelerà che era un monarchico, probabilmente anche informatore della polizia politica.

Giovanni Massaro era nell’osteria di Mazzola ma riesce a fuggire, rifugiandosi nella sua casa, non lontana. Viene inseguito e ucciso. Il cadavere viene abbandonate nelle campagne in fondo a via S. Paolo e viene ritrovato solo qualche giorno dopo. Massaro aveva 34 anni, era un operaio con problemi psichiatrici che gli avevano fatto perdere il lavoro.

La giornata di sangue non è ancora finita.

E’ già sera, Matteo Chiolero, simpatizzante comunista è a cena con la sua famiglia, sua moglie ed una bimba di 2 anni. Bussano alla porta, va ad aprire ed è freddato con tre revolverate al petto.

I fascisti vanno poi a cercare Andrea Chiomo. Chiomo aveva 25 anni, era comunista ed aveva ucciso un fascista l’anno prima. Ne era uscito assolto ma sapeva che la rappresaglia non si sarebbe fatta attendere. Lo trovano in casa di amici, lo trascinano via e lo ammazzano crudelmente.

Alle dieci di sera Pietro Ferrero, anarchico, segretario della Federazione degli operai metalmeccanici di Torino è davanti alla Camera del Lavoro.

Era stato in giro tutto il giorno, era già stato malmenato alla Camera del Lavoro la mattina e ne era probabilmente scosso. Poco prima aveva incontrato Andrea Viglongo e Mario Montagnana, redattori de “L’Ordine Nuovo” che lo avevano invitato a fermarsi da loro: le strade di Torino per quelli come loro non erano sicure.

Ferrero va invece verso la Camera del Lavoro, occupata dai fascisti. Lo vedono, lo catturano, lo torturano e poi lo uccidono. O forse morì per le torture. Poi bruciano la Camera del Lavoro e impediscono ai pompieri di intervenire finché non ne resta molto.

 

 

A mezzanotte i fascisti irrompono in casa di Erminio Andreoni, 24 anni e lo prelevano davanti alla moglie ed al figlio di un anno. Lo portano nella campagna vicina e lo uccidono a colpi di pistola. Poi tornano nella casa e la devastano.

Irrompono poi in casa di Matteo Tarizzo, 34 anni. Dopo aver lavorato come operaio alla FIAT aveva aperto una piccola officina in via Madama Cristina.Lo portano fuori dalla sua casa e lo uccidono a bastonare. Gli lanciano copie de “L’Ordine Nuovo”.

In quel primo giorno ci furono, o meglio si è venuto a sapere, di otto morti e quindici feriti.

La strage, in realtà, non è ancora finita. Continuerà nei due giorni e nelle due notti successive.

La metro, però, apre le sue porte. La finta savia, il ragazzo rumeno e la famiglia peruviana sono arrivati a destinazione. Scendono, si salutano, si separano.

La finta savia si accorge che sta sorridendo. Che la malinconia che si trascina dietro da settimane si è alleggerita un po’. Pensa a Marcos, marionettista argentino, fintamente scontroso. “Ci sono i turisti e ci sono i viaggiatori”, le aveva detto. La differenza è tutta qui: se si va alla ricerca della Storia o di tante piccole storie che leggono o costruiscono la Storia. Pensa a Flor, ai brindisi agli incontri. Perché la Storia, alla fine, non è fatta che di incontri.

Pensa che, a volte, si può essere viaggiatori anche senza muoversi dalla propria quotidianità. Perché viaggiare, in fondo, è un’attitudine.

Esattamente come incontrare.

 

 

 

(si ringrazia anarchopedia per la dovizia di particolari)

Un solo braccio, un solo pugno. Figli della stessa rabbia. Emilio resisti!

Certe cose le vieni a sapere così, inattese ed anche incomprese per un istante. Certe cose soffiano il gelo e lo sgomento, lo stupore e lo sdegno. Certe cose fanno sentire impotenti e poi non più soli e allora non più impotenti. Come un taglio al braccio di uno che fa sanguinare una vena che è di tutti. Molti e molte di noi non si sono mai incontrati e molto probabilmente non si incontreranno mai. Ma non è necessario incontrarci per sentirci un solo braccio, un solo pugno, una sola voce, un solo cuore. Camminiamo sulle stese strade, stessi passi e stessi sogni. E oggi ancora, di nuovo e per sempre, stretti insieme, figli e figlie della stessa rabbia!

‪#‎emilioresisti‬, abbiamo bisogno anche della tua rabbia….

La luna, il dito e il degrado di via Artom. Sulla fiaccolata di Mirafiori.

Sotto un cielo grigio, che solo per qualche ora smette di mandare pioggia, si è svolta a Torino la fiaccolata del comitato “Riprendiamoci il quartiere”. Il quartiere in questione è Mirafiori, quartiere operaio, nato per accogliere gli immigrati che dal Meridione e dal Veneto venivano a cercare lavoro, e trovavano l’alienazione della fabbrica e del quartiere dormitorio.

Mirafiori è sempre stato un quartiere difficile e tale si mantiene, nonostante la riqualificazione tentata per le Olimpiadi del 2006. Alla migrazione interna si è aggiunta, negli anni, la migrazione extracomunitaria ed i rom, spinti verso le periferie, relegati alla marginalità, condannati all’abitare i nonluoghi, dove niente rimane delle relazioni, della storia, delle identità.

Sono proprio i rom ad attirarsi le ire di (alcuni dei) residenti del quartiere, sono loro il principale simbolo del “degrado” che si vorrebbe combattere. Le accuse sono le più classiche, quelle di essere ladri e sporchi. Ci si potrebbe soffermare a lungo sull’economia rom, su come le società industriali abbiano reso superflue quelle che sono state le loro occupazioni tipiche, sulla difficoltà oggettiva di trovare lavoro per una delle etnie maggiormente stigmatizzate, in un paese dove il tasso di disoccupazione è il più alto da quando questo stesso, controverso, stato nazione esiste; allo stesso modo ci si potrebbe fermarsi a discutere di come si faccia a non essere sporchi se viene impedito il basilare diritto ad un tetto che non sia una baracca o un campo sorvegliato 24 ore su 24, di come anche gli stessi campi, riconosciuti ufficialmente come “slums”, baraccopoli, vengano istituiti coscientemente lontani da qualunque tipo di servizio, in luoghi malsani ed insalubri, luoghi che li condannano ad un’aspettativa media di vita di 47 anni. Il degrado di cui sono accusati i rom è di fare i loro bisogni in strada, e mentre li si accusa si guarda il dito e non la luna, come non accorgersi del degrado di una società che non garantisce nemmeno i servizi igienici ai suoi cittadini? Cittadini, non una parola a caso, perché oltre la metà dei rom che vivono in Italia hanno cittadinanza italiana. Non è il caso, questo è vero, dei rom di Mirafiori, che sono bosniaci, rifugiatisi in Italia dopo la guerra. Ad essere puntigliosi, la maggior parte dei rom che provengono dai paesi balcanici era cittadina della Repubblica Jugoslava, fatto che inceppa la rigida legislazione che regola le migrazioni; e così chi vuole e difende le frontiere non sa come rimpatriare chi proviene da uno stato che non esiste più.
Ancora, si potrebbe parlare dei progetti di integrazione, connessi innanzitutto alla scolarizzazione dei minori, in un paese dove l’istruzione gratuita ed il diritto allo studio sono in via di smantellamento da decenni, ma che torna ad essere imprescindibile se si tratta di rom. Che devono andare a scuola, non importa quanto lontano sia il campo o quanti sgomberi debbano subire in un anno scolastico. Intanto chi ne giova sono le associazioni, che a suon di progetti e fondi europei per l’integrazione si autosostentano e si garantiscono la propria sopravvivenza.

Di questo, si diceva, si potrebbe parlare. Ma in realtà il comitato di quartiere costringe a parlare di altro. Costringe a parlare dei processi di esclusione che ne stanno alla base, delle condizioni economiche e sociali che li causano e, soprattutto, delle risposte collettive che si potrebbero e dovrebbero dare.

Franco Basaglia si è occupato di una forma di esclusione diversa nella sua manifestazione ma simile nei sentimenti che generava e per i processi da cui era generata: la malattia mentale.

“Ogni società”, dice Basaglia, “la cui struttura sia basata su differenze strutturali, di classe e su sistemi competitivi, crea in sé aree di compenso alle proprie contraddizioni interne, nelle quali concretare la necessità di negare o di fissare in una oggettualizzazione una parte della propria soggettività”.

Questo è quanto accade agli internati degli ospedali psichiatrici, questo è ciò che accade ai rom di via Artom, agli immigrati. I manicomi, come i campi rom, sorgono nelle periferie, lontani ed invisibili, ricovero perfetto per l’aggressività, le violenze e le paure di chi li esclude.

La fiaccolata di via Artom non è un’iniziativa fascista, perché non sono i militanti fascisti a prendere l’iniziativa, benché non si lascino certo sfuggire l’occasione di aggregare intorno a sé il malcontento che pure serpeggia nei quartieri popolari in tempi di crisi. Il sentimento razzista che serpeggia è quello di chi vive le conseguenze senza comprendere le cause, di chi non conosce via d’uscita che non sia individuale alla propria personale crisi economica, è la mancanza di un’identità condivisa che permette di sapere chi si è, con chi allearsi e chi combattere. Se esiste la malattia mentale in questa società è perché questa stessa società è parte delle cause della malattia mentale, se esiste il “degrado” è perché questa stessa società lo produce, questo stesso sistema ha bisogno di quel “degrado” per continuare ad esistere. Quel “degrado” che, a conti fatti, non è altro che povertà, assenza di distribuzione della ricchezza, bisogni e diritti non garantiti. Questo bisognerebbe tornare a dire a chi si indigna per il “degrado”, che il “degrado” è prodotto inevitabile di questo sistema economico, ed è questo sistema economico che va combattuto e rovesciato.

Tra di noi, sottovoce ma costantemente, invece bisognerebbe chiedersi che fare. Perché il corteo che ostacola la fiaccolata non può bastare. Perché studiamo in centro, viviamo vicini al centro ed usciamo in centro, frequentiamo solo quelli che sono come noi. E intanto ci allontaniamo da chi è come noi, da chi, a volte più di noi, subisce questo sistema. E quando si sente solo, arrabbiato o rassegnato non ha altro sfogo che la retorica fascista, grillina o forconiana. La casta, la classe politica, le tasse, gli immigrati, l’Europa, i rom, il “degrado”.

I rom ed il “degrado” di via Artom sono un comodo capro espiatorio. La fiaccolata di via Artom è la possibilità di scaricare violenza ed aggressività su chi è più debole. Ma l’esclusione, dice ancora Basaglia, “il ritenersi in diritto di tagliar fuori dal proprio orizzonte un gruppo in cui localizzare il male del mondo, non può essere considerata alla stregua di un’opinione personale, accettabile quanto un’altra. Essa investe il modo globale dell’essere al mondo, è una presa di posizione generale: la scelta di un mondo manicheo dove la parte del male è sempre recitata dall’altro, dall’escluso”. E questo, anche senza accorgersene, è fascismo.

A forza d’esser vento, si diventa tempesta. Su Salvini al campo di via Erbosa

Rom e Sinti sono popoli tendenzialmente pacifici, non hanno mai avuto un esercito, non hanno mai fatto una guerra, al massimo le hanno subite o hanno risposto a violenze e discriminazioni con scaltrezza e furbizia.

Deve essersi messa d’impegno la consigliera comunale Borgonzoni per farsi rifilare uno schiaffo e qualche spintone da una giovane sinti del campo di via Erbosa, durante la campagna elettorale della destra emiliana.
Il video parte dallo schiaffo, non è dato sapere che cosa fosse successo prima, le dichiarazioni che si possono trovare in rete sono della Borgonzoni, di Salvini, di politici di altri schieramenti. Tutti rigorosamente gagé, ad eccezione di Djana Pavlovic, vice presidente della Federazione sinti e rom insieme.

La violenza contro i rom ed i sinti è anche il silenzio e l’infantilizzazione a cui li condanniamo, l’impossibilità di esprimersi su di sé e sulle proprie vite, la paura di denunciarla questa violenza, che per sentirsi più italiani, più integrati, meno problematici per questo paese tocca pure dire che “in questo momento in cui in Italia c’è uno scontro sociale molto forte abbiamo bisogno di coesione non di scontri” (sempre Djana Pavlovic in un’intervista).

La coesione di cui c’è bisogno in questo paese oggi è una coesione critica, scientificamente ricercata e scelta, non aprioristica e buonista.
Certo non è la coesione con Matteo Salvini, che, all’indomani dello schiaffo indice strepitando un presidio davanti al campo. E che lì trova ad attenderlo i e le militanti dei centri sociali, uomini e donne, antirazzisti e antirazziste, che non hanno nessuna intenzione di permettergli di fare campagna elettorale sulla pelle dei rom.

Fonte: Nazione Rom

In particolare la Lega attacca il Comune per i 130.000 mila euro di utenze del campo, ma i costi delle “emergenze nomadi” e della gestione “non emergenziale” dei campi è significativamente più alta. Alti sono i costi di guardie giurate e impianti di videosorveglianza, dei container e dei servizi, che vengono preferiti alle forme di autocostruzione, dei progetti di “integrazione” e sostegno del terzo settore.

Su una cosa, in effetti, sono d’accordo con Salvini. Bisogna chiudere i campi rom, che l’Italia stessa ha istituito a partire dalla prima metà degli anni ’70. Forse Salvini non lo sa che siamo l’unico paese in Europa ad aver fatto questo brillante percorso: prima abbiamo creato i divieti di circolazione per i rom ed i sinti (sì, proprio su base etnica), poi, dato che ci sembrava un filino discriminatorio abbiamo pensato di istituire dei campi attrezzati per nomadi in transito. Da un lato, non riconoscendo che anche dei camping attrezzati rivolti solo a rom e sinti potevano apparire vagamente discriminatori e razzisti, dall’altro sottovalutando un elemento: il nomadismo come carattere sempre meno diffuso tra i rom ed i sinti presenti nel nostro paese.

Ed ora, a distanza di quarant’anni, Salvini si accorge che è ora di chiudere i campi, ma con quali alternative? A Salvini vorrei dire che in Abruzzo e Molise i rom ed i sinti vivono in case da sempre, perché queste regioni non ne hanno istituiti di campi; che negli anni sono stati ideati diversi progetti per l’abitare rom: piccoli villaggi, case popolari, l’auto-costruzione che permette di avere una casa in legno su due piani e di 70 mq al prezzo di un container di 32, casa che prese fuoco durante una notte di temporale. Dissero che era stato un fulmine a distruggere Savorengo Ker, la “casa di tutti”. O forse facevano paura i legami sociali e le relazioni che si erano create intorno alla costruzione di quella casa, forse faceva paura l’autodeterminazione dei rom che per un volta decidevano per sé, senza farsi piegare dai gagé e dal loro ostracismo o assistenzialismo.

Savorengo Ker
Fonte: repubblica.it

E chiudiamoli sti campi rom, Salvini. Ma decidiamo insieme ad i rom ed ai sinti le sistemazioni alternative, iniziamo a capire che c’è bisogno di case, che c’è bisogno di non perderle a causa degli sfratti per morosità, morosità incolpevole di chi ha perso il lavoro per la crisi.

La realtà, Salvini, è questa. Ci avete tolto il lavoro, ci volete togliere le case, e ci volete convincere che dobbiamo prendercela con i rom ed i sinti, con gli stranieri che vorreste lasciare annegare, mentre ci passate accanto con la Crociera sul Mediterraneo.

La colpa, Salvini, è solo vostra. Le case ed il lavoro ce le togliete voi ed è per questo che con voi non è possibile nessuna coesione, nessun dialogo. E’ per questo che quando ti presenti davanti al campo di via Erbosa trovi “quei bastardi” ad aspettarti.
Perché lo sappiamo chi sono i nostri, e chi invece sta dall’altra parte.
Chi semina vento, raccoglie tempesta.
A forza di esser vento, si diventa tempesta.

Fonte: Tano d'Amico?

Fonte: Tano d’Amico?