La chiamano felicità, si chiama sfruttamento. Il 2015 della Coca Cola.

Il clima natalizio, seppur posticipato di qualche giorno, è quasi completo.

L’aria gelida e le strade che iniziano a essere spolverate di bianco, i primi fiocchi di neve che diventano nuvole, sospinti da folate di vento nordico…da un momento all’altro potrebbe apparire Babbo Natale. A meno che la Coca Cola non abbia deciso di fare economia pure su di lui.

Siamo onesti, il Babbo Natale come invenzione della multinazionale nordamericana è probabilmente una leggenda metropolitana; sono altri, purtroppo, i motivi per cui la Coca Cola in questi giorni è finita a far notizia sui giornali.

La celebre azienda di bevande ha annunciato pochi giorni fa la sua apertura a Gaza; la costruzione dell’impianto è iniziato lo scorso 22 Dicembre, con l’ingresso dei primi camion nei territori.

 AFP Photo - Khaled Desouki - Fonte rt.com

AFP Photo – Khaled Desouki – Fonte rt.com

Non so ancora quale sia la parte peggiore della faccenda. Da un lato, ovviamente, le necessità della Striscia sono immense: medicinali, generi alimentari ma anche materiale per la ricostruzione: sono 7 mila le case distrutte e 89 mila quelle danneggiate dall’operazione Margine Protettivo la scorsa estate; dall’altro il comportamento della multinazionale rende ancora più furenti se si guarda altrove.

Fonte: Facebook Aqsas Yarif

Fonte: Facebook Aqsas Yarif

Soltanto pochi giorni fa il Wall Street Journal ha riferito che la Coca Cola annuncerà presto il suo piano di ristrutturazione che taglierà tra i 1000 ed i 2000 lavoratori e lavoratrici  all’inizio del 2015, con le prime lettere di licenziamento che dovrebbero raggiungere i dipendenti statunitensi già dall’8 di Gennaio, ci sarà tempo fino al 15, invece, per tutti gli altri.

A quanto pare, l’azienda ha registrato una caduta del 14% dei suoi profitti nel terzo trimestre dell’anno ed ha quindi stabilito di effettuare tagli per 3.000 milioni di dollari; e così, oltre a chiedere ai dirigenti di prendere il taxi invece di usare le limousines e a cancellare la festa di Natale colpisce duramente i lavoratori.

Twitter: @BrujaAveriada

Twitter: @BrujaAveriada

E non si parla “solo” dei futuri licenziamenti. E’ da quasi un anno che altri lavoratori della Coca Cola portano avanti la loro battaglia per essere reintegrati sul posto di lavoro, nella vicinissima Madrid.

Sono 271 i lavoratori della sede di Fuenlabrada che sono stati licenziati ingiustamente dall’azienda e che oggi chiedono di essere reintegrati sui loro posti di lavoro.

In realtà il mancato reintegro è solo l’ultima angheria della multinazionale statunitense; alla decisione dell’Audiencia Nacional, che ha dichiarato nulli i licenziamenti e che ha obbligato la Coca Cola a tornare sui suoi passi, il colosso delle bibite ha risposto proponendo sì di tornare a lavorare ma in stabilimenti a centinaia di kilometri da Madrid.

"Fai felice qualcuno! Iniziamo con i lavoratori licenziati di Fuenlabrada".  Fonte: twitter @oskar06

“Fai felice qualcuno! Iniziamo con i lavoratori licenziati di Fuenlabrada”.
Fonte: twitter @oskar06

La mobilitazione dei lavoratori e delle lavoratrici ha inondato le reti sociali, facendo diventare l’hashtag “2015sincocacola” tendenza nel twitter spagnolo, e le strade madrilene, dove la protesta dei lavoratori della multinazionale nordamerica si è saldata con quella dei lavoratori di Madrid Rio, in sciopero da due settimane contro 127 licenziamenti e dei malati di epatite C che vedono peggiorare la qualità delle cure loro offerte a causa dei tagli alla sanità.

Fonte: Disopress

Fonte: Disopress

Continua l’invito al boicottaggio, scandito dallo slogan “Se a Madrid non si produce a Madrid non si compra”, mentre i lavoratori e le lavoratrici della Coca Cola si preparano a scendere di nuovo in piazza l’8 Gennaio, chiedendo alla Coca Cola di rispettare la sentenza dell’Audiencia Nacional con il riuscito subvertising di una della pubblicità natalizia del famoso marchio “Fai felice qualcuno! Iniziamo dai lavoratori di Fuenlabrada!”.

Una felicità amara, quella della Coca Cola, che licenzia e non reintegra, che prepara lettere di licenziamento invece che di auguri proprio sotto Natale e che decide di investire a Gaza, pubblicizzando futuri “progetti sociali” nella Striscia, dopo aver contribuito e sostenuto l’economia di Israele: dalla parte del carnefice prima, della vittima poi.

E non c’è aria di Natale che tenga perché la Coca Cola possa convincere dei suoi intenti filantropici, chiudendo e licenziando in Europa per trasferirsi in un uno dei luoghi più poveri e disperati del mondo.

“Fai felice qualcuno”, regalaci un 2015 senza Coca Cola, regalaci un 2015 senza sfruttamento.

“Sempre in piedi mai in ginocchio”. Lima contro la Legge “Pulpìn”.

Un occhio è sempre puntato all’altro emisfero, qui dalle parti di Semenella.
Non solo per l’estate che ora riscalda quelle latitudini, per le immagini di spiagge cristalline ed amici abbronzati.
Dalle parti di semenella non si riesce a non guardare lontano, a non invidiare quelle strade piene e rumorose.
Analogie, volendo, se ne trovano. Pure in Italia non si ferma la febbrile attività del Consiglio dei Ministri, che approva due decreti attuativi del Jobs Act, l’amministrazione straordinaria dell’Ilva e tutta una serie di altri provvedimenti la vigilia di Natale; la differenza, rispetto al Perù della “Ley Pulpìn”, è che qua le gambe sono sotto le tavole imbandite e le strade sono vuote, ma illuminate dalle luci del Natale.

In Perù, invece, il “Regime Lavorativo Giovanile” sta provocando fortissima opposizione in tutto il paese, soprattutto da parte delle e dei giovani che sono scesi in piazza il 18 ed il 22 Dicembre, a Lima, ma anche a Cusco, Trujillo e ad Arequipa.

La legge 30288, ribattezzata “Ley Pulpìn” (“moccioso”, ma che i peruviani mi correggano), vuole regolamentare l’accesso al lavoro dei giovani tra i 18 ed i 24 anni.

Il governo, per bocca del Ministro Daniel Maurate sostiene che la legge servirà a regolamentare il lavoro informale che, ad oggi, coinvolge, circa 1.800.000 giovani di età compresa tra i 18 ed i 24 anni. L’obiettivo della legge, dice il governo, è “migliorare l’impiegabilità e favorire la contrattazione”; alle aziende verrà impedito, sostengono inoltre, di licenziare lavoratori già assunti per assumere i meno costosi giovani. “Siamo assolutamente in grado di controllare chi entra e chi esce”, dice Danel Maurate in tv. E’ anche vero che il 60% dei lavoratori peruviani ha un contratto a termine, quindi il rimpiazzo con un giovane “pulpin” può avvenire semplicemente non rinnovando il contratto alla scadenza, senza necessità di licenziare.

C’è un altro dettaglio però, che andrebbe considerato: il lavoro informale, che rappresenta l’82.5% dell’occupazione giovanile in Perù si svolge all’interno delle cosiddette “Mypes”, cioè le micro e piccole imprese, che in Perù costituiscono il 98% del mercato produttivo ed alle quali NON si rivolge la Ley Pulpìn che, invece, si rivolge alla medie e grandi imprese. Medie e grandi imprese che potranno, quindi, assumere giovani che, a causa della loro inesperienza e difficoltà a trovare un lavoro regolare, dovrebbero accettare condizioni di lavoro precarie e vantaggiose per le aziende.

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Nello specifico, i giovani tra i 18 ed i 24 anni non avrebbero diritto a 30 giorni di ferie ma a soli 15, né al CTS (Indennità per tempo di servizio) né alle “gratificazioni” ne all’assegno familiare. Inoltre per il primo anno di lavoro sarà lo stato a farsi carico della Sicurezza Sociale del lavoratore o della lavoratrice.

La retorica dell’inesperienza è molto presente nei dibattiti televisivi dove si cerca di costringere i giovani alla gratitudine per l’azienda che si assume l’onere di formarli e che, per tale onere, ha il diritto di pagarli poco e male. E’ di oggi la notizia di una proposta di modifica che vorrebbe indirizzare questo provvedimento prevalentemente ai giovani che non hanno studi di livello abbastanza elevato. E così, alla critica di essere una legge discriminatoria nei confronti dei giovani si risponde rendendola discriminatoria nei confronti dei giovani più poveri e quindi con meno titoli di studio.

C’è un altro dato inquietante in tutta questa faccenda: il tasso di occupazione dei giovani tra i 18 ed i 24 anni, in Perù, è del 9,2% ma il 40% dei giovani tra i 18 ed i 24 anni, in Perù, è padre o madre di famiglia. Se il mondo occidentale approfitta (ed influenza) il crollo della natalità per avere lavoratori sempre più flessibili, pronti a “sacrifici” o rassegnati all’assenza di diritti, la presenza di giovanissime famiglie non implica maggiori tutele dall’altro lato dell’oceano, ma anzi, getta nella precarietà intere, vulnerabili, famiglie.

La “Legge Pulpìn”, approvata in un solo giorno, è già oggetto di modifiche, tentativo estremo di fermare le proteste.

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Ci sono infatti già state due manifestazioni, la prima con quindicimila e la seconda con ventimila partecipanti. Il bilancio della seconda marcia è stato di tre poliziotti feriti e cinque manifestanti arrestati. I giovani e le giovani peruviane hanno marciato a partire dal pomeriggio da Plaza San Martin, attraversando il centro di Lima e dirigendosi prima sotto la sede del Confiep (Confederazione nazionale delle istituzioni imprenditoriali private) e poi sotto la sede del Partito Nazionalista del presidente Ollanta Humala, dove i manifestanti hanno chiesto il ritiro della riforma e la polizia ha risposto con il lancio di gas lacrimogeni. Il corteo non si è disperso ma è continuato fino ad arrivare nel quartiere di Miraflores e si è poi diretto nuovamente verso Plaza San Martin bloccando il traffico sulla Via Expresa, la più importante di Lima. Dopo sette ore di corteo, verso la mezzanotte, sono iniziati gli scontri nella centrale piazza della capitale peruviana, con lanci di lacrimogeni e violenti arresti.

I manifestanti anche attraverso la stampa indipendente, denunciano la presenza di agenti di polizia del “Gruppo Terna”, in borghese ed infiltrati nel corteo e che hanno poi arrestato e malmenato manifestanti o giornalisti senza neppure identificarsi.

Ma i giovani e le giovani peruviane non sono affatto disposti a cedere i propri diritti ed hanno convocato una nuova manifestazione Lunedì 29 Dicembre alle ore 17 da Plaza San Martìn gridando di nuovo che “La gioventù cosciente mai sarà serva”.

Il reintegro degli operai della Lear: Indomabili fino alla vittoria!

La notizia è già vecchia, ha già fatto il giro della rete, è arrivata lontano, anche in Italia.
La notizia è che i lavoratori della Lear, dopo sette mesi di lotta, hanno ottenuto il reintegro nel proprio posto di lavoro.
Viene ancora voglia di parlarne, però, per capire quali sono stati i punti di forza di questa lotta, quali intuizioni hanno permesso di vincere e di ottenere il ritorno in fabbrica dei lavoratori licenziati.
Viene voglia di parlare, a dirla tutta, anche per ricordarci che le lotte si possono vincere, quando si è indomabili, uniti ed inflessibili.

La gioia degli operai della Lear. Fonte: Facebook, Despedidos de Lear

La notizia, in breve, è che la Camera del Lavoro ha stabilito il reintegro dei lavoratori e delle lavoratrici licenziate sette mesi fa, ritenendo illegittimi i licenziamenti di massa da parte dell’azienda che non ha neppure presentato un Piano Preventivo di Crisi, come la legislazione prevede.

In realtà, non si può nemmeno dire che tutto si sia risolto con la sentenza: l’azienda e l’organizzazione sindacale SMATA hanno tentato ancora di ritardare l’effettivo reintegro e di posticiparlo a dopo le vacanze natalizie; inoltre l’azienda sta tentando di non restituire gli stipendi di questi sette mesi, che spettano ai lavoratori in quanto ingiustamente licenziati.

Lunedì, quindi, è stato convocato un nuovo blocco della Panamericana ed un presidio davanti ai cancelli, fino ad ottenere di poter rientrare in fabbrica e firmare l’atto che sancisce il reintegro, considera nullo il licenziamento e stabilisce che i lavoratori e le lavoratrici torneranno alla produzione solo il 20 Gennaio, dopo la riapertura della fabbrica. L’azienda, dopo molte resistenze, si è impegnata a pagare loro parte delle vacanze entro la fine dell’anno.

I festeggiamenti degli operai della Lear dopo il reintegro. Fonte: Facebook Despedidos Lear

La lotta degli “indomabili della Lear” è diventata il principale incubo dei padroni argentini, secondo un’inchiesta svolta negli ultimi mesi ed, al tempo stesso, un esempio per la classe lavoratrice argentina.

Si è trattato di una lotta potente ed estesa, che ha coinvolto lavoratori, studenti, deputati, sindacalisti, organizzazioni in difesa dei diritti umani ma anche artisti, campioni sportivi, intellettuali, cantanti. Si è trattato di una lotta che ha preso sempre più spazio ed invaso sempre più luoghi: dai cancelli della fabbrica all’autostrada Panamericana, alle strade del centro di Buenos Aires e di molte altre città dell’Argentina. Una lotta dura di resistenza alla violenta repressione poliziesca che in più occasioni ha brutalmente sgomberato presidi, caricato manifestanti, ferito aderenti ai blocchi. Una lotta allegra, che ha portato alla creazione di festival, interventi di solidarietà nei concerti, tornei di calcio, festival solidali, una cassa di resistenza che ha permesso il sostentamento delle famiglie dei licenziati. Una lotta che ha scatenato la solidarietà internazionale, dai lavoratori italiani dell’Ikea di Piacenza ai presidi di fronte all’ambasciata argentina a Parigi.

Kumbia Queers, Anita Tijoux e Sara Hebe con i lavoratori della Lear

Kumbia Queers, Anita Tijoux e Sara Hebe con i lavoratori della Lear

Il successo della lotta alla Lear non è solo il successo di una vertenza ma è un avanzamento collettivo. Gli operai della Lear hanno rifiutato gli indennizzi offerti dall’azienda ed hanno deciso di lottare non solo per il proprio posto di lavoro, ma anche perché venisse ribadito che non vi possono essere licenziamenti di massa accampando come scusa una crisi non dimostrata né pianificata con un Procedimento preventivo di Crisi.

Il successo della lotta alla Lear è il successo di un metodo e di una forma di lottare, quello che implica il cercare ed il far crescere l’appoggio popolare, coinvolgere familiari, altri lavoratori, studenti, sindacati, significa moltiplicare le energie ed i fronti di lotta, significa riuscire a mostrare che non si tratta di una vertenza che riguarda pochi operai, significa tornare a credere che tutti insieme si può fermare o ostacolare anche una multinazionale nordamericana.

Sulla lotta alla Lear

Lear, Donnolley, Ikea. Tanti padroni, un’unica lotta.

La lotta paga…e si continua a lottare (Aggiornamenti dall’Argentina)

Sulla sentenza di reintegro

Grande vittoria degli indomabili della Lear